Le ricette di Artusi - Pranzo di Natale
Minestra in brodo:Cappelletti all’uso di Romagna
Principii:Crostini di fegatini di pollo
Lesso:Cappone, con uno sformato di riso verde
Rifreddo:Arista
Arrosto:Gallina di Faraone
Dolci:Gelato di torrone
Cappelletti all'uso di Romagna
Sono così chiamati per la loro forma a cappello. Ecco il modo più semplice difarli onde riescano meno gravi allo stomaco.
Ricotta, oppure metà ricotta e metà cacio raviggiolo, grammi 180.
Mezzo petto di cappone cotto nel burro, condito con sale e pepe, e tritato
fine fine colla lunetta.Parmigiano grattato, grammi 30.Uova, uno intero e uno rosso.Odore di noce moscata, poche spezie, scorza di limone a chi piace.
Un pizzico di sale. Assaggiate il composto per poterlo al caso correggere, perché gl’ingredienti non corrispondono sempre a un modo. Mancando il petto di cappone supplite con grammi 100 di magro di maiale nella lombata, cotto e condizionato nella stessa maniera. Se la ricotta o il raviggiolo fossero troppo morbidi, lasciate addietro la chiara d’uovo oppure aggiungete un altro rosso se il composto riuscisse troppo sodo. Per chiuderlo fate una sfoglia piuttosto tenera di farina spenta con sole uova servendovi anche di qualche chiara rimasta, e agliatela con un disco rotondo della grandezza di 5,5 centimetri di diametro.
Ponete il composto in mezzo ai dischi e piegateli in due formando così una mezza luna; poi prendete le due estremità della medesima, riunitele insieme ed vrete il cappelletto compito. e la sfoglia vi si risecca fra mano, bagnate, con un dito intinto nell’acqua, li orli dei dischi.
Questa minestra per rendersi più grata al gusto richiede l brodo di cappone ; di quel ramminchionito animale che per sua bontà si offre nella solennità di Natale in olocausto agli uomini. Cuocete dunque i cappelletti nel suo brodo come si usa in Romagna, ove trovereste nel citato giorno degli eroi che si vantano di averne mangiati cento.; ma c’è il caso di crepare, come avvenne ad un mio conoscente. A un mangiatore discreto bastano due dozzine.
A proposito di questa minestra vi narrerò un fatterello, se vogliamo di poca importanza, ma che può dare argomento a riflettere.
Avete dunque a sapere che di lambiccarsi il cervello su’libri, i signori di Romagna non ne vogliono saper buccicata, forse perché fino dall’infanzia i figli si avvezzano a vedere i genitori a tutt’altro intenti che a sfogliar libri e fors’anche perché, essendo paese ove si può, far vita gaudente con poco, non si crede necessaria tanta istruzione; quindi il novanta per cento, a dir poco, dei giovanetti, quando hanno fatto le ginnasiali, si buttano sull’ imbraca, e avete un bel tirar per la cavezza che non si muovono.
Fino a questo punto arrivarono col figlio Carlino, marito e moglie, in un villaggio della bassa Romagna; ma il padre che la pretendeva a progressista, benché potesse lasciare il figliolo a sufficienza provvisto avrebbe pur desiderato di farne un avvocato e, chi sa, fors’anche un deputato perché da quello a questo è breve il passo. Dopo molti discorsi, consigli e contrasti in famiglia fu deciso di gran distacco per mandar Carlino a proseguire gli studi in una grande città, e siccome Ferrara era la più vicina per questo fu preferita.
Il padre ve lo condusse, ma col cuore gonfio di duolo avendolo dovuto strappare dal seno della tenera mamma che lo bagnava di pianto. Non era anco scorsa intera la settimana quando i genitori si erano messi a tavola sopra una minestra di cappelletti, e dopo un lungo silenzio e qualche sospiro la buona madre proruppe: “ Oh se ci fosse stato il nostro Carlino cui i cappelletti piacevano tanto!”
Erano appena proferite queste parole che si sente picchiare all’uscio di strada, e dopo un momento, ecco Carlino slanciarsi tutto festevole in mezzo alla sala. “ Oh! Cavallo di ritorno”, esclama il babbo, “cos’è stato?”. “E’ stato”, risponde Carlino, “che il marcire sui libri non è affare per me e che mi farò tagliare a pezzi piuttosto che ritornare in quella galera”.
La buona mamma gongolante di gioia corse ad abbracciare il figliuolo e rivolta al marito: “Lascialo fare”, disse, “meglio un asino vivo che un dottore morto; avrà abbastanza di che occuparsi co’ suoi interessi”. Infatti, d’allora in poi gl’interessi di Carlino furono un fucile e un cane da caccia, un focoso cavallo attaccato a un bel baroccino e continui assalti alle giovani contadine.
Crostini di fegatini di pollo
Sapete già che ai fegatini va levata la vescichetta del fiele senza romperla, operazione questa che eseguirete meglio operando dentro a una catinella d’acqua.
Mettete i fegatini al fuoco insieme con un battutino composto di uno scalogno, e in mancanza di questo di uno spicchio di cipollina bianca, un pezzetto di grasso di prosciutto, alcune foglie di prezzemolo, sedano e carota, un poco d’olio e di burro, sale e pepe; ma ogni cosa in poca quantità per non rendere il composto piccante o nauseante. A mezza cottura levate i fegatini asciutti e, con due o tre pezzi di funghi secchi rammolliti, tritateli fini colla lunetta. Rimetteteli al fuoco nell’intinto rimasto della mezza cottura e con un poco di brodo finite di cuocerli, ma prima di servirvene legateli con un pizzico di pangrattato fine e uniteci un po’ d’agro di limone.
Vi avverto che questi crostini devono essere teneri e però fate il composto alquanto liquido, oppure intingete prima, appena appena, le fettine di pane nel brodo.
Riso per contorno
Quando avrete per lesso una pollastra o un cappone mandateli in tavola con un contorno di riso che vi sta bene. Per non consumare tanto brodo imbiancate il riso nell’acqua e terminate di cuocerlo col brodo dei detti polli. Tiratelo sodo e, quando è quasi cotto, dategli sapore con burro e parmigiano in poca quantità; posto che il riso sia grammi 200, quando lo ritirate dal fuoco legatelo con un uovo o, meglio, con due rossi. Se il riso, invece che al lesso di pollo dovesse servire di contorno a uno stracotto di vitella di latte o a bracioline, aggiungete agl’ingredienti sopra indicati due o tre cucchiaiate di spinaci lessati e passati per istaccio. Avrete allora un riso verde e più delicato.
Si può dare migliore aspetto a questi contorni restringendo il riso a bagnomaria entro uno stampo; ma badate non indurisca troppo, che sarebbe un grave difetto.
Arista
Si chiama àrista in Toscana la schiena di maiale cotta arrosto o in forno, e si usa mangiarla fredda, essendo assai migliore che calda. Per schiena di maiale s’intende, in questo caso, quel pezzo della lombata che conserva le costole, e che può essere anche 3 o 4 chilogrammi.
Steccatela con aglio, ciocche di ramerino e qualche chiodo di garofano, ma con parsimonia, essendo odori che tornano facilmente a gola, e conditela con sale e pepe. Cuocetela arrosto allo spiede, che è meglio, o mandatela al forno senz’altro, e servitevi dell’unto che butta per rosolar patate o per rifare erbaggi.
E’ un piatto che può far comodo nelle famiglie, perché d’inverno si conserva a lungo.
Durante il concilio del 1430, convocato in Firenze onde appianare alcune differenze tra la chiesa romana e la greca, fu ai vescovi e al loro seguito imbandita questa pietanza conosciuta allora con altro nome. Trovatala di loro gusto cominciarono a dire: arista, arista ( buona, buona!), e quella parola greca serve ancora, dopo quattro secoli e mezzo, a significare la parte di costato del maiale cucinato in quel modo.
Gallina di Faraone
Questo gallinaceo originario della Numidia, quindi erroneamente chiamato gallina d’India, era presso gli antichi il simbolo dell’amor fraterno. Meleagro, re di Calidone, essendo venuto a morte, le sorelle lo piansero tanto che furono da Diana trasformate in galline di Faraone. La Numida meleagris, che è la specie domestica, mezzo selvatica ancora, forastica ed irrequieta, partecipe della pernice sia nei costumi che nel gusto della carne saporita e delicata.
La carne di questo volatile ha bisogno di molta frollatura e, nell’inverno, può conservarsi pieno per cinque o sei giorni almeno. Il modo migliore di cucinare le galline di Faraone è arrosto allo spiede. Ponete loro nell’interno una pallottola di burro diaccio spolverizzato di sale, che poi leverete a due terzi di cottura per finire di cuocerle e di colorirle al fuoco, ungendole coll’olio e salandole ancora.
Al modo istesso può cucinarsi un tacchinotto.
Gelato di torrone
Latte, un litro.
Zucchero, grammi 250.
Zucca rossa candita, grammi 40.
Cedro candito, grammi 30.
Mandorle, grammi 30.
Pistacchi, grammi 20.
Rossi d’uovo, n.4.
Odore di vaniglia.
Fate una crema col latte, lo zucchero e i rossi d’uovo, dandole l’odore della vaniglia, e versatela nella sorbettiera. Quando sarà gelata mescolateci dentro gli ingredienti suddetti. I pistacchi e le mandorle sbucciateli nell’acqua calda; quelli divideteli in tre parti e queste tritatele alla grossezza di una veccia e tostatele. Il candito tagliatelo a laminette e la zucca a dadi grossetti, che essendo rossi faranno più bella mostra.
Se il latte è buono, facendolo bollire per mezz’ora collo zucchero dentro, si può fare senza dei rossi d’uovo, ma il composto verrà allora di meno sapore.
Le mandorle in questo e in simili casi vengono meglio tostate nella seguente maniera. Spellate e tritate che siano mettetele al fuoco con una cucchiaiata del detto zucchero e un gocciolo d’acqua, rimestatele continuamente e quando avranno preso colore fermatele con un altro gocciolo di acqua; versatele quindi in un colino sopra lo zucchero rimasto e servitevene.
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